Il testo che segue è tratto dalla pubblicazione "SCUOLE GRANDI E PICCOLE A VENEZIA TRA ARTE E STORIA" di Sivia Gramigna Dian e Annalisa Perissa Torrini, 2008
L'esistenza a Venezia di Scuole Grandi e Piccole di
devozione, di arti e mestieri e di comunità straniere lungo tutto l'arco di
vita della Repubblica costituisce un fenomeno interessante e alquanto
complesso, storico, religioso, politico, sociale, economico, architettonico ed
artistico.
Fu nel Medioevo che anche a Venezia cominciarono a
costituirsi, nell'ambito delle comunità parrocchiali, particolari Confraternite
di devozione, associazioni di città e nazioni, corporazioni d'arti e mestieri
che, sotto la protezione di un santo, si riunivano per devozione, per difesa di
interessi comuni, per reciproca assistenza e per opere di carità materiali e
spirituali. Si possono dividere in due grandi categorie, anche se i loro
confini non sono sempre nettamente distinguibili: Scuole Grandi e Piccole.
Quest'ultime tendevano per lo più a riunire coloro
che esercitavano lo stesso mestiere o provenivano da uno stesso luogo; le
Grandi, invece, rivestivano carattere decisamente più devozionale. Le più
antiche sorsero a seguito del movimento dei flagellanti, che, guidato da
Ranieri Fasani, tra il 1260 e il 1261, diffuse la pratica devozionale della
flagellazione anche in area veneta, mantenuta viva, dalle Grandi in
particolare, fin oltre il XVI secolo, anche come atto di pentimento pubblico,
l'associazionismo laico veneziano aveva specifiche caratteristiche che lo
resero parte integrante, indispensabile, per il buon funzionamento delle stato:
salvaguardava l'incontro di interessi tra governo e lavoratori organizzati
nelle Arti; manteneva strutturati e uniti i lavoratori, forniva ai gruppi
associati una certa libertà di autogestione interna, dove poteva esplicarsi il
potere delle classi intermedie, non chiamate alla diretta gestione statale.
In origine il nome Scuola veniva usato per indicare
il luogo dove avvenivano le riunioni; in seguito il termine finì per identificare
la Confraternita come figura giuridica. Per dar vita ad un nuovo sodalizio,
bisognava chiedere l'autorizzazione al Consiglio dei Dieci, presentando La
Mariegola, la raccolta delle norme che avrebbero gestito la nuova comunità.
Dopo l'approvazione, gli iscritti, accordandosi con
il Capitolo parrocchiale, regolavano con un atto notarile i diritti e i doveri
reciproci. Quindi veniva richiesta l'erezione canonica, cioè il riconoscimento
giuridico ecclesiastico della Confraternita, necessario per ottenere
eventualmente dal Papa il benefico delle indulgenze, erogate in base alle
elemosine dei fedeli. La richiesta di indulgenze era subordinata anche alla
licenza del Consiglio dei Dieci, che dal 1507 affidò l'incarico di controllare
e approvare le disposizioni contenute nelle Mariegole ai Provveditori di Comun.
Ogni sodalizio possedeva nella chiesa della
contrada, ove risiedeva la maggior parte degli iscritti, un altare intitolato
al santo patrono presso il quale si tenevano le riunioni, si custodivano gli
arredi e la cassa, si celebravano le sacre funzioni e si seppellivano i
confratelli defunti. Con l'andare del tempo Le Scuole più importanti
costruirono, negli immediati pressi della chiesa, un proprio edificio da
adibire a sede sociale, progettato talvolta da architetti di fama e ornato con
dipinti dei migliori artisti del momento; all'interno venivano custoditi il
gonfalone, le preziose croci astili, i reliquiari d'oro e d'argento, i
candelabri, i fanaloni, i baldacchini, i soleri ed altri oggetti da esporre e
portare in processioni solenni il giorno del santo patrono e in occasione di
festività religiose e civili. Ogni confratello era tenuto a pagare tasse annue
al sodalizio e al Governo. Con il denaro così acquisito, nonché con i lasciti
testamentari, venne a costituirsi il patrimonio di ogni Scuola che doveva
essere impiegato in opere di beneficenza, nella costruzione di case da affittare,
nella creazione di ospedali per i compagni infermi e nell'istituzione di ospizi
per i bisognosi.
Tra le 210 Scuole contate da Marin Sanudo nel
Lo statuto, ossia, come si è detto, il registro
pubblico che ordinava le associazioni, ebbe in origine i nomi di Mariegola,
Matricula, Capitularia, Statuto, Ordinamento; in esso erano stabilite molte
norme a sfondo morale comuni a tutte Le Scuole, che i consociati erano tenuti a
rispettare: l'assistenza materiale e spirituale verso gli infermi, i vecchi, le
vedove ed i figli dei soci defunti; la partecipazione alle funzioni religiose
sociali e a quelle per la salvezza dell'anima dei confratelli; l'elargizione di
doti a fanciulle bisognose; l'osservanza di regole di comportamento morale
nella vita pubblica e privata, pena la radiazione dal sodalizio, fatto che
avveniva specialmente per delitti nei confronti dello Stato.
La vita interna delle Scuole era regolata da un'organizzazione
gerarchica, presieduta dal Castaldo, in origine un funzionario di fiducia del
Doge, più tardi eletto tra gli appartenenti al sodalizio. Il Vicario, o
vice-Castaldo e due o più Compagni detti Bancali formavano il Consiglio o
Banca; tra le altre cariche della Scuola si ricordano: il Massaro, o tesoriere;
i due Sindaci, o revisori dei conti, Lo Scrivano o segretario, l'Esattore, uno
o più Tassatori per la ripartizione degli aggravi. Ogni carica, che durava in
genere un anno, non poteva essere rifiutata da nessuno degli eletti se non
pagando una ammenda.
L'elezione di ciascun membro avveniva con una
particolare solenne cerimonia: il nuovo iscritto doveva, stando in ginocchio ai
piedi dell'altare della Scuola, e toccando la Mariegola, impegnarsi con
giuramento all'osservanza di tutte le prescrizioni fissate, ricevendo poi, dal
Gastaldo, il "bacio di pace".
L'iscrizione era aperta a chiunque avesse compiuto i
quindici anni, talvolta anche meno, senza distinzione di sesso. Solo in
rarissimi casi le donne erano state espressamente escluse con precise e severe
disposizioni, che però, con il passare del tempo, caddero in disuso e vennero
annullate. Rari erano i sodalizi costituiti esclusivamente da donne, molto
spesso nobildonne: in essi, tuttavia, le relazioni con le magistrature erano comunque
tenute da uomini. Religiosi e nobili erano accolti senza bisogno di versare la
benentrada ma non potevano in genere rivestire cariche direttive.
Ogni anno, la festa patronale veniva celebrata con
grande solennità; i confratelli dovevano versare la tassa prestabilita, detta
luminaria che dava il diritto di ricevere "pan e candela" in segno di
fraternità, sostituito in seguito da una candela e un'immagine del santo stampata
su cartapecora e colorata a mano ad acquerello. Alle assemblee generali, o Capitoli,
doveva presenziare anche un rappresentante governativo che, in apertura, faceva
l'appello dei presenti e penalizzava con una multa gli assenti ingiustificati;
poi, durante la seduta, i partecipanti non dovevano muoversi dal loro posto per
intervenire al dibattito, né interrompere chi aveva la parola e mantenere
sempre un comportamento civile; le decisioni prese dall'assemblea dovevano
sempre essere ratificate dalla Magistratura competente, che aveva pieni poteri
per modificarle a sua discrezione.
Tale complessa struttura delle Scuole era andata
dalle origini consolidandosi nei secoli con regole sempre più ferree, tanto che
si giunse a parlare di "serrata delle Arti", intendendo tutti quei
provvedimenti, cui si è accennato, volti a difenderei diritti corporativi da un
lato e a garantire la qualità delle prestazioni e dei prodotti forniti
dall'altra. Il rigido sistema, con poche modifiche durante tutta la secolare
storia della Serenissima, aveva funzionato perché coinvolgeva tutta la società
attiva, relazionandola strettamente con il potere politico.
Le Arti, infatti, trovavano nel governo un
interlocutore attento, senza intermediari, tanto che le istanze corporative
venivano direttamente prese in considerazione dai rappresentanti governativi,
sempre presenti nelle assemblee capitolari. D'altra parte, la Serenissima
trovava nelle Scuole un prezioso aiuto per affrontare i gravosi problemi legati
all'inserimento dei lavoratori stranieri, all'assistenza dei poveri, delle
vedove, degli ammalati, dei diseredati e degli emarginati in generale.
Attraverso le Scuole i bisognosi potevano essere capillarmente individuati e
assistiti. In sostanza, l'associazionismo laico veneziano veniva a svolgere
quelle funzioni socio-politiche che altrove erano gestite direttamente dallo
Stato e, in un quadro di carenza dell'organizzazione amministrativa pubblica,
garantivano il mantenimento del consenso istituzionale.
Si pensi che le Scuole contribuivano altresì al buon
andamento delle finanze della Serenissima attraverso la riscossione di tasse e
concorrendo nei momenti di estrema necessità ad aiutare lo Stato, come nel caso
delle spese nelle guerre contro i Turchi. Ne consegue che, pur con i limiti
della cosiddetta "serrata delle Arti", non venne mai messa in
discussione l'esistenza di tali istituzioni, sentite come colonna portante
dell'ordinamento socio-politico della Repubblica.
Nel Settecento, sotto la pressione dei cambiamenti
dei tempi, economisti e uomini di cultura prospettarono programmi di
"apertura" del sistema corporativo, ma mai ne ipotizzarono
l'abolizione. Nel
L'anno dopo, nel 1773, fu nominata una commissione
col compito di affrontare i problemi inerenti al sistema delle Arti, alla quale
lo stesso Andrea Memmo fu chiamato a partecipare. Le tesi, le questioni
sollevate e le proposte novative restarono tuttavia sulla carta, travolte tutte
dagli eventi disastrosi legati alla caduta della Repubblica.
Fu così che nel 1797, i decreti emanati dal primo
governo provvisorio francese e poi da quello austriaco, in seguito al trattato
di Presburgo del 1805, segnarono bruscamente nel 1806,1808,1810, la
soppressione di tutte, o quasi, le Scuole veneziane, con la conseguente
avocazione al demanio dei beni di loro proprietà. Nell'intento del nuovo assetto
politico trapela la precisa volontà di disgregare dalla base il sistema su cui
si era per secoli retta la Serenissima, nonché di privare i Veneziani della
loro precedente identità socio-culturale.
In quest'ottica, fu proibito ogni tipo di
associazionismo laico ed ogni attività connessa, compresa quella caritativa e
assistenziale. Andarono così distrutti o dispersi gran parte dei preziosi
arredi sacri e pittorici che avevano costituito l'orgoglio e la ricchezza delle
Confraternite, mentre, quanto alle sedi sociali, molte furono totalmente
demolite, altre adibite ad usi diversi; solo alcune usate ancora come sedi di
Scuole ricostituite.
Numerosissime erano in Venezia le Confraternite a
carattere esclusivamente devozionale, tra esse sempre primeggiarono le sei
Grandi, seguite dalla Scuola della Passione e da quella di San Fantin, detta
della buona morte. Mentre le Scuole Minori ebbero spesso solo un altare in
chiesa o, nel migliore dei casi, un modesto edificio nei pressi di essa.
Le Grandi poterono permettersi la costruzione di
sontuosi edifici come sede sociale, abbelliti da pitture, sculture e arredi
sacri eseguiti dai migliori artisti e artigiani del tempo. La tipologia
architettonico-decorativa delle Scuole Grandi era costituita, senza grosse
varianti, da un unico grande salone per Le cerimonie e un più piccolo ambiente,
detto sagrestia; da una sala per le riunioni, detta sala del Capitolo o
Capitolare, al piano superiore, comunicante con una stanza più piccola, l'Albergo,
dove venivano custoditi gli oggetti più preziosi e si riunivano solo i membri
del governo. Mentre la sala terrena era d'aspetto semplice e severo, quella
capitolare era sfarzosamente ornata da ricchi soffitti lignei intagliati e
dorati, da splendidi pavimenti marmorei e da grandi pitture di famosi maestri, come
Gentile e Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Tiziano Vecellio, Jacopo
Tintoretto e Giovanni Battista Tiepolo, in una sorta di competizione di
magnificenza tra i vari sodalizi.
Per frenare l'eccessivo lusso esibito dalle Scuole
Grandi intervenne talvolta lo stesso Governo, essendo il denaro spesso
sottratto alle opere di beneficenza, scopo principale di queste istituzioni. In
occasione delle feste religiose e civili a cui partecipavano tutte Le Scuole,
le Confraternite più importanti spiccavano per la ricchezza degli arredi sacri
e per la magnificenza degli ornamenti. Sfilavano il Guardian Grande, il
Vicario, i dodici Bancali e i numerosi confratelli; il primo indossava un abito
color cremisino con le maniche alla ducale, mentre il Vicario portava una
tunica di color paonazzo.
Festeggiamenti memorabili si organizzarono nel 1585,
quando arrivarono a Venezia principi giapponesi recatisi a Roma dal Papa: ogni
Scuola Grande aveva costruito un palco sul quale si ammirava il patrono,
impersonato da un confratello, circondato da alti inginocchiatoi; tutti i
palchi erano seguiti da piramidi di argenterie trasportate dai confratelli e
precedute da un carro sul quale stava una donna, variamente ornata di gioielli
e pietre preziose, simboleggiante Venezia che mostrava la scritta "servate
praecepta". Rendevano ancor più solenne la processione gli stendardi
dipinti, i preziosi candelabri, le croci, i baldacchini di broccato e le aste
d'argento portate dai confratelli.
Il più spettacolare di tutti i cortei era, invero,
quello che si formava tutti gli anni il giorno di San Marco, il 25 aprile,
quando ogni Confraternita, preceduta dal proprio gonfalone, depositava nella
basilica ai piedi del Doge, le reliquie racchiuse in scrigni meravigliosamente
cesellati, mentre venivano esposti i migliori manufatti dell'artigianato.
Gentile Bellini ha lasciato una puntuale
documentazione pittorica della famosa processione nel telero dipinto nel 1496
per la Confraternita di San Giovanni Evangelista, ora alle Gallerie
dell'Accademia. Generalmente i cortei duravano dalle quattro del pomeriggio
alle nove di sera e tale era la partecipazione dei Veneziani che calli e
campielli erano ricolmi di folla.
Le Scuole d'Arti e Mestieri nacquero da una
necessità di difesa di interessi comuni di persone che esercitavano lo stesso
mestiere, divenendo un valido mezzo di controllo dello Stato su artigiani e cittadini,
in quanto era indispensabile, per esercitare un'Arte, l'iscrizione alla
rispettiva corporazione.
L'aspetto economico-sociale era sempre strettamente
legato all'elemento religioso; anche i santi patroni spesso avevano in vita
esercitato il mestiere che erano chiamati a proteggere, come Sant'Omobono
(sarto) e Sant’Aniano (ciabattino).
L'Arte molte volte si articolava in più rami, detti
colonnelli che si configuravano come diramazioni di uno stesso mestiere: ad
esempio, l'Arte dei marangoni (falegnami) si divideva in quattro colonnelli: da
case, da noghera (da mobili), da soaze (cornici) e da rimesse (impiallicciature
e tarsie).
Le corporazioni artigianali erano soggette a stretta
sorveglianza da parte del governo della Serenissima che voleva in tal modo da
un lato proteggere e garantire la produzione veneziana dalla concorrenza
foresta, dall'altro esercitare un controllo capillare sulla vita cittadina. Lo
Stato sovrintendeva sulle Arti attraverso speciali Magistrature: dal 1173 il
controllo fu esercitato dall'Ufficio o Magistratura dei Justiciari; dal 1261
furono istituite due Magistrature, la Giustizia Vecchia e la Giustizia Nuova,
incaricate di verificare i prezzi delle merci, stabilire pesi e misure,
approvare gli statuti, giudicare le controversie fra i confratelli di un'Arte o
dirimere questioni fra Arti diverse.
A partire dal 1565 contro le sentenze emanate dalla
Giustizia Vecchia le corporazioni potevano proporre appello ricorrendo ai
Provveditori sopra la Giustizia Vecchia. I Justiciari oltre all'approvazione
degli statuti, avevano anche il compito di sovrintendere alla trascrizione e
conservazione, in apposito registro ufficiale, di tutte le ordinanze emanate
sulle Scuole.
Ogni corporazione poi doveva pagare al governo delle
tasse in base al reddito dei propri confratelli, in più gli artigiani erano
tenuti ad offrire allo Stato prestazioni gratuite, diverse da Arte ad Arte. Per
esercitare un'Arte bisognava dimostrare serietà di costumi oltre ad una buona
conoscenza del mestiere; era per questo necessario compiere un garzonato di
cinque o sette anni, prestare poi servizio in una bottega come lavorante per
altri due o tre anni, ed infine, superata una prova alla presenza dei più
autorevoli rappresentanti dell'Arte, l'artigiano aveva finalmente la
possibilità di aprire bottega in proprio, con il titolo di Maestro.
I figli dei Maestri godevano di particolari
privilegi, quali non dover portare a termine il tirocinio di garzone e di
lavorante né superare la prova per diventare Maestro. Il lavoro era regolato da
precise disposizioni scritte nelle Mariegole, varianti da corporazione a
corporazione. In genere non si potevano accettare garzoni che non avessero
ancora compiuti i dodici anni d'età; era rigorosamente vietato imporre ai
fanciulli lavori pesanti o nocivi alla salute, indurre un apprendista o un
lavorante a lasciare il suo per un altro Maestro, prima del tempo stabilito.
Era altresì proibito il lavoro notturno, ma, qualora
il tipo di lavora lo rendesse indispensabile, come nel caso dei vetrai, l'anno
lavorativo veniva ridotto a sette o otto mesi; non dovevano poi essere
impiegate materie prime di cattiva qualità, soprattutto per i generi
alimentari: nel caso del pesce, portato a Venezia al palo, dove si pagavano i
dazi e si stabilivano i prezzi, era esercitata un'attenta sorveglianza da parte
dei Soprastanti, che vigilavano tutti i giorni al palo e distruggevano il pesce
avariato.
Oltre a queste e ad altre norme con cui ogni Arte
regolamentava la propria vita associativa, vigevano anche alcune disposizioni
del Governo della Repubblica a salvaguardia degli interessi sia dell'Arte come
dello Stato, quali la punizione severissima verso chi provasse ad allontanare
da Venezia i capi e i Maestri: il vetraio muranese, ad esempio, che
abbandonasse a città era trattato come un traditore, mentre ad ogni consociato
era vietato far uscire dalla laguna materie ed attrezzi usati nella
fabbricazione del vetro.
Altre disposizioni erano emanate dalla Giustizia
Vecchia e Nuova concernenti il controllo sui prezzi delle merci e sulla qualità
dei pesi e delle misure. Ogni Arte possedeva un'insegna sulla quale era
raffigurato il mestiere relativo: quarantaquattro insegne giunte fino ai nostri
giorni e custodite presso il civico Museo Correr, costituiscono il cosiddetto
fondo delle Arti veneziane.
Questi dipinti, alcuni su tavola e altri su tela,
facevano parte di un nucleo molto più cospicuo, che si trovava negli Uffici
della Giustizia Vecchia nel palazzo dei Camerlenghi a Rialto, dove, si suppone,
servissero da insegna per le bacheche su cui venivano affisse le comunicazioni
relative alle singole corporazioni.
Alla caduta della Repubblica, nel 1797, le insegne,
passate al Demanio, finirono nei depositi di Palazzo Ducale, contrassegnate
tutte dalla sigla D. P. V. (Deposito Pitture Venete), scritta in bianco assieme
al vecchio numero d'inventario. Nel
Le insegne sono in parte del XVI - XVII secolo, in
parte del XVIII secolo. Le prime, le più antiche, sono su tavola e mantengono
una certa uniformità di struttura compositiva; recano nella parte superiore gli
stemmi dei magistrati della Giustizia Vecchia accanto allo stemma del doge e al
leone marciano, mentre nella parte inferiore figura un'immagine relativa
all'Arte. Si tratta di opere per lo più anonime, eseguite da artisti di chiara
vena popolare.
Il secondo gruppo, quello settecentesco, è
costituito invece da opere su tela che non presentano uniformità compositiva,
essendo lasciata al pittore la massima possibilità di esprimere liberamente la
propria creatività. Tra questi figurano artisti di spicco della Venezia del
tempo, quali Francesco Guardi, Gaspare Diziani, Gaetano Zompini, Antonio
Balestra e molti altri.
Scuole di comunità straniere
Molti "foresti" residenti in Venezia,
originari di una stessa città o nazione, Albanesi, Greci, Schiavoni,
Fiorentini, Tedeschi e altri, spesso si riunirono in corporazione per difendere
i loro comuni interessi sia di stranieri che di artigiani; quasi sempre,
infatti, i cittadini di una stessa nazione esercitavano il medesimo mestiere,
come i Milanesi, che praticavano l'arte fabbrile, o i Lucchesi l'arte di seta;i
loro santi protettori erano, il più delle volte, i patroni delle nazioni o
qualche santo particolarmente venerato nel paese d'origine. Così i Fiorentini
elessero tra i santi titolari San Giovanni Battista e i Milanesi San Carlo
Borromeo; i Fiorentini, definiti "nazione" nella Mariegola, avevano
ottenuto di raggrupparsi in Scuola nel 1435, i Milanesi già nel 1361, mentre i
Lucchesi nel 1360.
L'insediamento armeno nel centro della città,
invece, aveva carattere diverso, in virtù di immobili pervenuti loro per antico
lascito di Marco Ziani (1253); gli Armeni disponevano, inoltre, di un proprio luogo
di culto, un oratorio intitolato alla Santa Croce. Caratteristiche peculiari
riveste la presenza, peraltro molto antica nei territori della Repubblica, di
Ebrei, provenienti dall'Oriente e dai Paesi d'Oltralpe e, dopo il 1492, dalla
Spagna e dal Portogallo, da dove erano stati cacciati.
Con decreto del 29 marzo 1516, la Serenissima offrì
agli Ebrei una Condotta, una sorta di contratto che consentiva loro di abitare
stabilmente in città a patto di accettarne tutti gli obblighi. La Condotta
stabiliva che gli Ebrei dovessero abitare tutti e solo a Cannaregio, nella
parrocchia di San Girolamo presso l'isola del geto novo. Il termine
''Ghetto", secondo la tradizione, nasce proprio dalla parola veneta
"geto" usata per indicare il luogo dove si fondevano i metalli. Il
"Ghetto nuovo" è il più antico insediamento stabile ebraico, mentre
il "Ghetto Vecchio", sede della più antica fonderia, sarà il secondo
insediamento ebraico concesso nel 1541.
Durante a notte, il Ghetto veniva chiuso da due
porte all'inizio dei sottoportici di accesso, dove sono tuttora visibili i
segni dei cardini, mentre custodi cristiani percorrevano in barca i canali
circostanti per impedire sia che gli Ebrei tentassero di uscire, sia che
Cristiani tentassero di entrare. AL suono della "Marangona" le porte
venivano aperte e da quel momento la circolazione era libera, purché gli Ebrei
fossero riconoscibili in quanto dovevano indossare un cappello giallo. Potevano
svolgere solo alcuni lavori: anzitutto dovevano garantire il servizio di prestito
di denaro su pegno, mestiere che, secondo la mentalità del tempo, portava alla
dannazione e, una volta divenuti residenti, non potevano più praticare il
grande commercio, ma solo fare gli " strazzarioli", cioè commerciare
abiti e cose usate, ed infine potevano laurearsi in medicina ed esercitare
liberamente l'arte medica anche nei confronti dei Cristiani. Nel ghetto, oltre
a tutto il necessario per far vivere un piccolo paese dentro una città, sorsero
numerosi piccoli luoghi di preghiera e vennero erette cinque sinagoghe maggiori
(dette Scole).
Ai mercanti tedeschi, invece, fin dal XIII secolo,
la Repubblica aveva messo a disposizione un fondaco, presso Rialto,
ristrutturato nel 1423 e un altare della nazion alemanna nella vicina chiesa di
San Bartolomio; lì, nel 1506, fondarono la Scuola di Santa Maria dell'Umiltà
dei Tedeschi. I Ligadori del Fondaco dei Tedeschi, legatori e imballatori,
inoltre, si unirono in sodalizio nel 1481, nella chiesa dei Santi Giovanni e
Paolo, ponendosi sotto la protezione della Santissima Trinità. A loro volta i
calegheri tedeschi si unirono in corporazione nel 1383 ed ebbero in dono nel
1482 da un calegher tedesco uno stabile per stabilirvi la sede sociale, e poi
un ospizio e un ospedale.
Il modello organizzativo di Scuola e altare
nazionale era formalmente autorizzato anche per le minoranze dalmata e
albanese, la prima riunita definitivamente nel 1451, la seconda dal 1447. Agli
Albanesi fu concesso dal Consiglio dei Dieci di riunirsi in Confraternita nel
1442. Il sodalizio aveva un rigido carattere nazionale e solo in rare eccezioni
erano ammessi membri non di origine albanese. In seguito agli assedi di Scutari
del 1474 e del 1478-79, da parte dei Turchi, molti profughi albanesi si
rifugiarono a Venezia per sfuggire alle persecuzioni musulmane. La città,
interessata a mantenere rapporti di alleanza contro il nemico comune, li
accolse con disponibilità, consentendo loro di esercitare il commercio di lana,
coperte e olio.
Gli stemmi del bassorilievo che ornano la facciata
della Scuola ricordano Antonio Loredan, l'eroe del primo assedio vittorioso di Scutari,
e Antonio da Lezze, che difese nel secondo assedio con valore, ma inutilmente,
la città, che fu ceduta ai Turchi. Sotto la lapide con l'iscrizione "Gli
scutarini posero ad eterna memoria della loro prova di fedeltà verso la
Repubblica veneziana e del singolare favore del Senato veneziano verso di
loro", è raffigurata Scutari assediata da Maometto II e dal Gran Visir.
L'interno dell'edificio era decorato con un ciclo di sei tele di Vittore
Carpaccio, tra i maggiori artisti veneziani del tempo, autore di un altro
straordinario ciclo di un'altra sede di comunità straniere, quello celeberrimo
dipinto per i Dalmati, a riprova della ricchezza e dell'importanza assunta
dalle due Scuole nel contesto sociale veneziano nel XV secolo, in quanto
committenti di opere d'arte tra le più significative della pittura veneziana
rinascimentale.
Fin dal XIV secolo risiedevano in città cittadini
provenienti dalla Dalmazia, impiegati per lo più nelle attività marittime o nel
lavoro dell'Arsenale. Dopo il 1409, data da cui inizia l'integrazione
dell'intera Dalmazia nello stato veneziano, che la governava stabilmente,
aumentò notevolmente la presenza in città di abitanti provenienti da quelle
coste. Duecento di essi nel 1451 ottennero dalla magistratura veneziana
competente il permesso di riunirsi in confraternita, allo scopo di tutelare i
marinai, i soldati, i lavoratori dalmati che si trovavano da anni lontani dalle
loro case, bisognosi spesso di assistenza per malattie e ferite riportate sulle
navi in guerra al servizio della Repubblica; molti necessitavano di sostegno
per varie ragioni come prigionia e sepoltura cristiana.
La Serenissima continuò ad accordare una speciale
protezione ai marinai dalmati reduci dalle lunghe navigazioni e da imprese di
guerra, fornendo sostegno in ogni occasione alla Scuola Dalmata, sempre
impegnata nel commercio marittimo e nella difesa contro i Turchi. La Confraternita,
inoltre, fu parte integrante dei piani veneziani per una crociata nel 1464.
Assai numerosa era anche la comunità greca, in aumento
dopo il 1453; ad essa la Repubblica continuò ad attingere per il reclutamento
determinante della sua cavalleria leggera. Fu Isodoro Metropolita di Kiev, poi
patriarca latino di Costantinopoli, a richiedere ufficialmente nel 1456 la
fondazione di una chiesa greca a Venezia, con il favore papale, ma incontrando
la resistenza del patriarcato della città.
La grande quantità di Greci che, come spiega
Gerolamo Priuli ne I diari, "capitavano a Vinegia senza esser
chiamati", costituiva una risorsa per l'organizzazione militare veneziana
di fronte alla "spaventosa potentia" turca, tant'è che anche
"l'università dei Greci abitanti in questa santissima et alma città"
nel 1498 potrà organizzarsi in Confraternita sotto la protezione di San Nicola,
se pur con un limite numerico di 250 uomini iscritti.
Le Scuole di Fiorentini, Lucchesi, Milanesi,
Tedeschi, Albanesi, Dalmati, Greci, Ebrei, sono degna espressione di quella
Venezia cosmopolita celebrata da Sansovino, una città ove: "si veggiono
persone differenti e discordi, di volti, di abiti et di lingue, ma però tutti
concordi in lodare così ammiranda città".